Alex Celli

Il maestro

Finalmente dopo 5 fottuti anni di magistrali riesco a diplomarmi con nonricordoquanto e posso fare il maestro!
In realtà sarebbe opportuno, prima, anche laurearsi, ma decido di provare a sbattermi facendo il tirocinante in una scuola privata di Rimini.
Ah le magistrali… un bel paradiso, tipe ovunque, poca matematica e un totale di materie interessanti come la filosofia e la letteratura!
Bei tempi quelli. Ricordo in particolare di non essermi fatto nemmeno una tipa, eppure non mancavano mica: legioni di donne ovunque, però io non me ne sono fatta neanche una. Ah se potessi ritornare in prima con la mentalità di adesso: farei un totale di puffi in più! (La mia migliore amica mi rinfaccia sempre di aver fatto pochi puffi!)
Dicevo quindi che, dato che ero diplomato magistrale, decisi di fare il maestro in una scuola privata di Rimini il cui nome è meglio non dire perché s’incazzano magari… andai a fare il tirocinante al ***.
Mi presento il primo giorno alle maestre e queste mi presentano ai bambini: che belli i bambini cazzo! A me piacciono un casino soprattutto quando li tiene mia mamma; sono davvero carini, però, il problema è che sporcano eccessivamente e fanno casino assai, mangiano anche come i maiali.
Inoltre, a volte, quando leggo i Fantastici Quattro, quelle creaturine si avvicinano e mi strappano le pagine, proprio magari all’albo antico n. 1 in carta platinata super collector per intenditori, allora un po’ m’incazzo… però li comprendo perché sono ancora poco evoluti.
I bambini che avrei dovuto badare erano comunque grandini: una classe terza i cui componenti, tranne le maestre, si aggiravano sugli 8 anni.
Il primo giorno non faccio un’emerita minchia e sto bene; inoltre mi presentano una maestra giovane che si chiama Luana! Ah, adesso ragioniamo. Vado a casa e penso che starò proprio da dio al ***!
Il secondo giorno la maestra Luana mi espone il mio primo compito: dovrò portare in giro una bambina con problemi alle gambe, si chiama Monia e deve usare il deambulatore, il mio dovere è prestare attenzione mentre lei fa una passeggiata – semplice direi, farò in modo che non si faccia male.
Tutto passa davvero liscio, discuto con Monia e la faccio ridere, la aiuto nelle discese e nelle salite e… e poi arriva la ricreazione!
Pregusto già il momento in cui mi sarei pavoneggiato con la maestra Luana, quando una visione d’inferno mi guasta la festa: dalla porta dell’aula nugoli di pargoli indemoniati escono a frotte correndo come dei buzzurri verso Katia, lei ride e cerca di mandare a tutto gas il deambulatore, mi butto in avanti cercando di proteggere la bambina dagli scalmanati, riesco a bloccarne due… si sarebbero schiantati contro Katia a manetta. Intanto la bambina vuole correre anche lei, inciampa e batte il mento sull’asta del deambulatore. Prima che cada del tutto la tiro su. Sto attento comunque agli altri, ronzano attorno a Katia: ho paura che si faccia male in qualche fottuto modo, uno di quegli stronzetti passa più volte velocissimo vicino al deambulatore, vorrei cedere al lato oscuro della forza, vorrei piegare una gamba proprio mentre passa, un piccolo innocente sgambetto… mi piacerebbe vedere quel nano schiantarsi contro qualche giostra, ma non posso, sarebbe così semplice, devo solo piegare la gamba, solo un po’. Non lo faccio.
La ricreazione finisce. Tutti in aula, anche Katia. È finita e sono sudato come un gorilla.
Luana mi chiede com’è andata. Vorrei piangere ma devo fare il duro. “Tutto a posto” dico. “Eh eh, sono un po’ dei casinari quei bambini, ma va tutto bene, eh eh.”
Finalmente vado a casa, vado a dormire perché domani dovrò badare Katia, e dovrò combattere contro orde di mostriciattoli piccoli e insidiosi. Almeno c’è Luana.
Il terzo giorno inizia in maniera tranquilla. Verso le undici Luana mi dice che deve assentarsi, dovrò badare l’intera classe per poco tempo.
Appena la maestra se ne va, i bambini cominciano a fare casino. Lo sapevo, l’avevo messo in preventivo in effetti. Caccio due urli ma i bambini non mi cagano; poi una pargola mi viene vicino e mi confessa che, secondo lei, io e la maestra Luana staremmo bene insieme. Che bambina intelligente e lungimirante! Penso che i bambini non siano poi così tremendi. Le do una pacca sulla testa in maniera amichevole e le dico che è una brava bambina, che diventerà la capoclasse; lei si stima un casino, sono proprio un pedagogista della madonna, è così che si deve fare con i bambini, dargli soddisfazioni, non sgridarli sempre!
Mentre caccio altri due urli al vento, vedo dalla finestra Luana che sta andando dove doveva andare, la guardo in maniera che capisca che ho tutto sotto controllo, eh eh. Poi un bambino mi spinge per la maglia e mi dice con estrema tensione che Giovanni sta tirando i dadi. Io lo guardo e gli spiego che i dadi non fanno male a nessuno, lo assicuro che me ne occuperò personalmente.
Riguardo la finestra ma la dolce insegnante non c’è più, in compenso il bambino mi sta ancora tirando per la maglia e mi esprime dubbi riguardo al fatto che i dadi siano così innocui. Che ansia di bambino! Deve imparare a non farsela sotto ogni volta. Mi giro, appena in tempo. Giovanni in effetti sta tirando i dadi, ma non sul pavimento: li tira in testa agli altri bambini. Non sarebbe un grosso problema se i dadi fossero i classici dadi delle bische clandestine… in realtà sono dadi di legno grandi e pesanti, circa un chilo l’uno.
Schivo a malapena un dado con una mossa stile Neo di Matrix e vedo che quello psicopatico del menga possiede altre due armi di distruzione di massa da lanciare sui bambini innocenti. Allora m’incazzo, caccio un urlo feroce verso Giovanni, gli rubo i giochi, così impara, non è più mio amico, ecco.
Luana torna che tutti piangono, anche Giovanni.
Mi dice che ho fatto un buon lavoro ma non mi sembra convinta. Io me ne frego dato che scopro che lei è andata a telefonare al moroso: che cazzo di maestra è?
Passa una settimana e salgo di grado. Adesso devo insegnare ai bambini a fare le frasine. Che due coglioni!
Il compito dei bambini è pensare una parola con la “V” e scriverla sul quadernino.
Dopo circa mezz’ora tutti hanno finito che non ci vuole un genio.
Tutti tranne Davìd.
Davìd datti una mossa, veloce che è bella ora di andare a mangiare, porca miseria.
Davìd s’impegna un totale, resta circa un’altra mezz’ora a pensare a una dannata parola che inizi con una “V”. Adesso è l’una passata e i bambini stanno mangiando. Davìd no, deve finire il compito, non si transige.
Verso le due, i morsi della fame hanno convinto Davìd a scrivere quella parolina sul quadernino, si alza e mi mostra fiero il lavoro. Leggo, leggo, leggo e ci vedo scritto: “vuovo”.
Ma come cazzo hanno fatto i tuoi genitori a chiamarti Davìd? Davìd ricorda Michelangelo, ricorda la mitologia, gesta eroiche ed epiche e tu, dopo due ore, dopo due ore che pensi a una parolina con la “V”, riesci a trovare solo “vuovo”? Col cazzo che mangi! Ma Davìd si mette a piangere, il solito ricatto dei bambini: come le donne, si mettono a piangere.
La settimana dopo scrivo una lettera al direttore, do le dimissioni: i bambini mi piacciono, soprattutto quando li tiene mia madre.


Alex Celli è nato a Rimini il 06/03/1979. Dopo un’infanzia dalla salute compromessa e un percorso scolastico che l’ha portato a conseguire il diploma magistrale, ha abbandonato l’università per lavorare in uno studio commerciale. In seguito a un’esperienza di misericordia, ha frequentato l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “Alberto Marvelli” a Rimini ed è diventato prof di religione. Con Fara ha pubblicato nel 2002 Chicken Breast, nel 2005 gli esilaranti racconti inseriti in Antologia Pubblica, nel 2006 La Compagnia S.E., secondo “capitolo” della trilogia di Chicken Breast, e nel 2009 l’ultimo: Il ritorno di Chicken Breast. È inserito in varie antologie avellanite.