Ep.11 – Girovagando 
di programma in programma… Photoshop

La Grafica commedia – Episodio 11

 

Non spaventatevi dall’immagine dei floppy-disk, anche se mi piace andare indietro con la memoria, non partirò da così lontano. È un’immagine tratta dal depliant che mi fu dato all’acquisto del mio primo Macintosh nel 1988, quando ogni programma risiedeva in un floppy-disk da 800 kbyte. Come ho già scritto nella premessa, questo libro non vuole essere un manuale da prendere troppo sul serio, ma come un racconto di esperienze personali, utili in quanto tali e nulla più.
Dopo la lunga carrellata del capitolo precedente sulle immagini, non posso che iniziare a parlare di Photoshop, mi verrebbe da aggiungere, il principe. Eh già! È proprio un signor programma che mi accompagna fin dalla sua nascita in quell’ormai lontano 1990. Come si dice di un ragazzino prodigio: “l’ho visto crescere”.
Adobe, fondata nel 1982 da Warnock e Geschke, era già ben nota a noi grafici “smanettoni” per due motivi: aveva inventato il linguaggio postscript (alla base del disegno vettoriale e delle prime stampanti laser), aveva creato alla fine del 1986 un programma ancora oggi molto diffuso: Illustrator. Io in realtà non sono mai stato un  fan di questo programma tanto che non ne parlerò in questo libro. Ecco perché continuo a ribadire che questo non è un manuale. 
Non si arrabbino i fan di questo programma, sono ben consapevole di lasciare un grande vuoto, ma preferisco sempre parlare di ciò che conosco. Un tempo avrei dedicato pagine intere a FreeHand, il concorrente, grande rivale di Illustrator, che però dal 2004 non è più stato sviluppato e oggi, con i nuovi sistemi operativi, non è più possibile aprire. 
Se FreeHand non si riesce ad usare, e di Illustrator non intendo parlare, qualcuno potrebbe chiedersi di cosa scriverò. Il mio lavoro è principalmente di impaginazione e di creazione di oggetti vettoriali semplici, e ciò che un tempo svolgevo con FreeHand, oggi lo realizzo con molta soddisfazione con un’altra importante creatura di Adobe, InDesign, una vera meraviglia, nata nel 1999 in sostituzione di PageMaker. 
Ma iniziamo ad entrare un po’ più nel dettaglio dei programmi e cominciamo quindi con Photoshop.


Photoshop

Come ho scritto nella parte introduttiva di questo libro, studiare all’ISIA ha da sempre dato la possibilità ai futuri grafici, di sperimentarsi nelle diverse discipline del comunicare. Di esami di fotografia ne ho dati ben quattro, e per realizzare la mia tesi ho passato una quantità smisurata di ore in un bagno di casa mia che avevo adibito a camera oscura per sviluppare fotografie a colori, che per richiesta di precisione e per assenza totale di luce, è cosa ben diversa e più complessa dello sviluppare in bianco e nero. Avevo acquistato strumenti a basso costo per il mantenimento della temperatura, dei tamburi autorotanti che sembravano pezzi derivanti da lavatrici, che avevano trasformato il bagno, per la disperazione di mia madre, in una sorta di macchina del professor Baltazar.

Ho voluto fare questa premessa per farvi capire quale sia stato il mio grado di soddisfazione nel trovarmi di fronte ad un programma come Photoshop, ad avere potenzialmente tra le mani uno strumento capace di fare tanto di più di ciò che facevo in camera oscura, senza stare al buio, senza la preoccupazione dei gradi centigradi e di respirare chissà quali vapori. Era lì tutto a portata del mio mouse. È però vero che quella esperienza fatta sul campo aveva messo nelle mie mani una capacità di gestire le immagini fotografiche che nessun manuale di Photoshop mi avrebbe dato. Del resto un programma come Photoshop non poteva che nascere da chi aveva grande esperienze di fotografia. I fratelli Knoll, gli ideatori del programma, erano figli di un fotografo, e si narra che svilupparono questo software per agevolare il lavoro del padre.

Prima di Photoshop avevo già iniziato a divertirmi con un programma dal nome significativo “Digital Darkroom” a cui credo Photoshop si sia fortemente ispirato (p.e. la bacchetta magica), era però una camera oscura digitale solo per il bianco e nero. 

Di Photoshop credo che la prima volta me ne parlò Andrea, l’amico di cui vi ho scritto nella prima parte del libro, raccontando dei workshop all’ISIA. Ancor prima di fondare lo studio a Vienna, Nofrontiere, si era già ritagliato spazi importanti nel design a livello europeo. Forse proprio per questi contatti, gli passavano tra le mani da oltre Oceano software interessanti e ancora non in versione definitiva. Ho un vago ricordo di un suo racconto, forse di quando lavorava alla rivista Village oppure per la Swatch, in cui mi chiedeva se avevo conosciuto un software molto potente, di gran lunga superiore all’unico programma a colori che conoscevamo per dipingere immagini bitmap: Pixelpaint.

Photoshop 1.0 si presentò subito nel migliore dei modi. Fu amore a prima vista. Gli strumenti di disegno e ritocco fotografico si dimostrarono validi, potenti, precisi, capaci di simulare effetti reali a cui io non ero per niente abituato dentro un monitor. Pensate che tra le mie fasi, le mie passioni studentesche, c’è stata pure quella dell’aerografo, probabilmente influenzato da Tiziano Cremonini. Ricordo che Romano Marrè, mio professore di fotografia, un giorno mi disse: “Quando avrai finito l’ISIA, potresti venire a fare un seminario sul fotoritocco”, perché in quel periodo mi divertivo a intervenire sulle foto con aerografo, pennelli super-appuntiti e chine cinesi. Posso dire grazie a Marrè della stima, e dell’esser stato nei miei confronti buon profeta, anche se come insegnante mi son trovato tra le mani strumenti completamente diversi. In realtà lui aveva le idee chiare. Già nei primi anni Ottanta ci avvisava che il futuro sarebbe stato digitale, cosa che avrebbe secondo lui mandato in crisi la Kodak e i suoi allevamenti in argentina, utili a creare gelatina per le pellicole fotografiche.

Il primo Photoshop lavorava con immagini a colori RGB. Aveva già la possibilità di trattare immagini CMYK, ma con un metodo ancora rozzo che non permetteva di elaborare e visualizzare l’immagine in quadricromia, ma solo divisa in singoli canali di colore: cyan, magenta, giallo e nero.

Mentre scrivo (2013) siamo alla versione 13.0 che appartiene al pacchetto di programmi Adobe chiamato CS6.
(Nel 2020 siamo alla 21.1 della CC 2020)

Ogni passaggio di versione è sempre stata fonte di soddisfazione per le migliorie aggiunte. Una delle prime fu proprio la possibilità di lavorare con più facilità le immagini di quadricromia. Dei passaggi importanti ricordo la versione 3.0 che introduceva i livelli. Prima, tutto ciò che veniva fatto andava a modificare i pixel della immagine, con i livelli veniva apportata una miglioria estremamente importante che ha dato grande libertà e ha facilitato il lavoro. Chi già conosce un po’ Photoshop si immagina cosa volesse dire lavorare in assenza di livelli. 

La versione 5.0, portò invece la novità del testo rieditabile. Fino a quel momento succedeva che, scrivendo una parola, questa venisse immediatamente trasformata in pixel, in immagine non più modificabile dal punto di vista tipografico – carattere, stile, dimensione. Ora invece la scrittura produce un livello particolare di testo che rimane sempre modificabile fino a che si continua a salvare il file in formato .psd. Altri formati immagine per l’interscambio con altri programmi, come ad esempio il jpeg o il png schiacciano tutti i livelli in uno unico, e così pure il testo diventa parte dell’immagine.

È evidente che rispetto alle numerose potenzialità del Photoshop odierno, come ad esempio gli strumenti di elaborazione 3D, è difficile che si usi questo programma in tutte le sue funzioni. L’uso che ne faccio io è determinato dalle esigenze di lavoro, che sono quasi sempre le stesse: correzione cromatica e di esposizione delle foto; pulizia, eliminazione di parti o ritocco selettivo; applicazione di filtri che automaticamente rendono una immagine più suggestiva ed efficace. Ognuna di queste operazioni può essere fatta in maniera discreta, giusto il necessario per migliorare l’immagine, o anche in maniera pesante tanto da diventare una vera e propria tecnica espressiva. Quest’ultima operazione ha sempre dei forti rischi perché Photoshop mette a disposizione una buona quantità di filtri automatici di caratterizzazione pittorica o con effetti molto particolari e suggestivi che se però vengono utilizzati senza un criterio preciso, così tanto per il gusto di fare, rimangono fine a sé stessi, e banalizzano molto il lavoro.

Realizzare una documentazione completa sull’utilizzo di Photoshop richiederebbe ore di filmati e libri di centinaia di pagine. Sono spiegazioni che si trovano facilmente sia nella documentazione ufficiale fornita sul sito della Adobe, sul manuale interattivo del programma, ma anche in numerosi video su Youtube che presentano le personali esperienze dei tantissimi utenti di questa eccezionale applicazione.

Per aiutare chi non ha mai visto Photoshop, sotto, attraverso qualche semplice video, mi limito a mostrare una panoramica veloce delle principali funzioni che rappresentano un centesimo delle tante funzioni che fanno di Photoshop il programma più utilizzato nella grafica.


Correggere, l’esposizione di una immagine, darle più brillantezza, attenuare le ombre sono operazioni spesso necessarie per rendere una immagine più incisiva.

Sono moltissimi i comandi che permettono di correggere cromaticamente le immagini.

Estrapolare un elemento dell’immagine, duplicandolo e lasciandolo indipendente come livello in modo da potergli applicare effetti speciali e filtri.

Lo strumento timbro è da sempre il più utilizzato per fare piccole correzioni e pulizia selettiva e precisa nelle immagini.

Attraverso i livelli e i filtri si riescono a creare particolari effetti dinamici.

I filtri pittorici sono tanti, e personalizzabili, ma dopo un iniziale entusiasmo, consiglio sempre di non abusarne.

Una volta terminato il lavoro l’immagine potrà essere salvata utilizzando uno dei formati di cui abbiamo scritto in un capitolo precedente. Va precisato tuttavia che se rimaniamo nell’ambito di utilizzo di programmi Adobe appartenenti alla CS6, l’interscambio può avvenire anche fra documenti salvati nel formato proprio. InDesign importa file PSD e questo risulta molto comodo perché, come abbiamo detto, il formato proprio mantiene il file modificabile in tutti i suoi aspetti, in tutti gli elementi che lo compongono (p.e. livelli, testi editabili, effetti, ecc.)

Testo tratto dal libro:

La grafica commedia – di Walter Valter Toni – Fara Editore – 2013. pagg. 109-116

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